LA NASCITA DELLA CORALE FAUSTINIANA
di Egidio Bonomi - Dal libro "La Corale di San Faustino, storia e presenza del gruppo vocale dal 1932 ad oggi" . (Gruppo Editoriale Delfo - Febbraio 2004)
La Corale nasce nel 1932. Il fondatore è una figura storica per Brescia, quel don Giacomo Vender che sarà poi ben noto come “prete degli sfrattati” e che riempirà della sua corposa, rigorosa presenza un cinquantennio, come prete tutto rivolto verso i più deboli, come resistente a un regime mortificante, come insegnante di religione nelle scuole superiori, come esempio di dedizione al sacerdozio, come carità che, quasi quasi, non comincia nemmeno da se stessi per essere tutta destinata agli altri. Parroco di San Faustino, in quegli anni, era monsignor Luigi Gheda che assecondò immediatamente il progetto della corale e la favori apertamente. Don Vender sfrecciava per le vie molto meno trafficate della Brescia dei decenni perduti con la sua bicicletta, la tunica svolazzante, l’immancabile papalina a proteggere una fronte troppo vasta, orfana di capelli, ma tanto cara a un numero incalcolabile di persone. Egli aveva appreso i primi rudimenti della musica in seminario. L’ aveva poi coltivata come autodidatta e quando arrivo, curato imberbe, nella parrocchia di San Faustino, mise in campo tutta la passione e le forze per dare vita ad un corpo di cantori che dura tuttora. Una semina dai frutti abbondanti, confortanti e che ha visto alzarsi una pianta ancora solida perchè i principi d’amicizia, di passione musicale che informavano i coristi di quel tempo sono rimasti intatti, costituiscono il concime che porta fertilità. Don Giacomo fini per essere identificato come “prete degli sfrattati” quando, negli Anni Trenta, fu costruita piazza Vittoria. Lo spazio, allora, era occupato da case fatiscenti, il cuore della Brescia povera, un prolungamento del Carmine fatto di poveri, disoccupati, ladruncoli, donne di... costumi non difficili, un’umanità varia, ai margini di quella cosiddetta perbene e che viveva dolori, gioie in singolare comunità, pur nelle immancabili brutture di quello ch’era sostanzialmente un ghetto, sia per scelta di chilo abitava, per quanto non di rado forzata, sia perchè era evitato dai cittadini comuni.
Quando nasce la necessita d’avere a disposizione lo spazio per la nuova, grande piazza, gli abitanti di quelle case vengono sfrattati e mandati oltre il Mella, nella zona di Urago. Oggi quella parte della citta è a portata di mano, ma settant’anni e passa fa era completamente fuori. Erano stati costruiti o adattati dei capannoni e la gente sfrattata viveva lì. Molti in baracche. Don Vender si “autosfratta” dalla città e va a vivere con questi ultimi della società. Da qui il suo nobile nomignolo.
Prete molto rigoroso, don Giacomo, come rivelano aneddoti ricordati da anziani coristi, alcuni dei quali tuttora in attività, come usa dire per gli artisti del belcanto. Sotto la direzione di don Vender il coro era arrivato a novanta elementi, un vero esercito di voci. Chi ha qualche dimestichezza con i cori, o anche solo con la guida d'un gruppo qualsiasi, comprende la difficoltà di “tenere” unite, così tante persone diverse per età, sentire, cultura, mentalità. Il carisma di don Vender era notevole semplicemente perchè ogni sacrificio, ogni rigore partiva prima di tutto da lui.
La prima denominazione del gruppo canoro fu “Corale faustiniana”, nel nome un fausto presagio di lunga vita. Era composta da ragazzi, ragazze, giovani e meno giovani dei due sessi. Fatto piuttosto insolito in quegli anni in cui non era decoroso, forse nemmeno molto lecito, collocare un gruppo misto, non dico in cantoria, ma nemmeno sul coro della chiesa. Cosi, quando si cantava nelle funzioni, i ragazzi voci bianche erano collocati davanti a tutti sul coro della Basilica di San Faustino, gli uomini subito dietro per creare un muro alle ragazze, praticamente “nascoste” in retrovia.
Le prime prove avvenivano in una cantina che, facile presumere, era ben ampia, un modo diretto d’assaporare un concreto spirito di... vino. Don Vender sedeva al vecchio armonium, strumento azionato a pedali. Immagino un Tubi, di Lecco, la marca che andava per la maggiore in quegli anni e che faceva sprigionare da ogni armonium una voce robusta, unica. Lo dico con cognizione di causa perchè per anni è stato lo strumento sul quale anch’io ho suonato nella bella chiesa di Sant’Apollonio di Lumezzane quando, ragazzotto quindicenne, accompagnavo l’ufficio dei morti delle sei del mattino, quello di terza classe, ossia di quanti non potevano fare l’offerta per le altre due classi più onerose e che per ciò stesso contemplavano l’uso di paramenti decorati e dell’organo.
Dunque don Vender disponeva dell’armonium. Non c’era maestro a guidare il coro, ma lo stesso suonatore, con cenni del capo, dirigeva, dava gli attacchi, scuoteva col furore degli occhi quando qualcuno deviava o ritardava, plaudiva, sempre con gli occhi e la mimica, al celeste musicale che saliva dalla cantina, durante le prove; molto più nobilmente e spiritualmente dalle volte della Basilica dei Santi Patroni, durante le funzioni. E anche qui i ricordi d’un’anziana corista soccorrono: <<Ci si alzava alle cinque del mattino durante la Settimana Santa per cantare alle funzioni. Il Venerdì Santo tutti in chiesa prima delle fatidiche ore tre della morte di Cristo. La corale si era disposta dietro l’altare: i maschi da una parte, le femmine dall’altra.
Chissà come, probabilmente don Vender, che stava officiando, aveva pensato per un attimo ai ragazzi mescolati alle ragazze. Cosi non ha esitato, in piena funzione, ad avvertire, a voce alta: “Se mi accorgo che nasce un idillio tra alcuni di voi, chiudo la corale”».
Erano tempi d’assoluto rigore nei rapporti tra sessi diversi, ancor più in una corale che si prefiggeva la maggior gloria di Dio. Oggi tanta intransigenza fa sorridere, ma non pare meno esagerato il lassismo che le è succeduto. Rigore, si rammentava. Ecco un altro esempio: il giorno di San Faustino, facciamo primi Anni Cinquanta, tra ragazzi e ragazze s’era deciso di andare sui Ronchi, a piedi, naturalmente, come senza difficolta avveniva in anni in cui il cavallo di San Francesco era il mezzo più diffuso di spostamento. Don Vender viene a sapere della cosa e si preoccupa, forse s’infuria anche un po’, atteggiamento del tutto evangelico se solo si pensa al Gesù che scaccia i mercanti dal tempio. Certo, qui la colpa, che non era nemmeno colpa, è lieve. Il curato chiama al redde rationem una per una le ragazze che avevano “scalato” i dolci pendii dei Ronchi nostri, le sottopone a un terzo grado...dove siete state, che cosa avete fatto, con chi vi siete accompagnate. .. Qualcuna, forse travolta dal senso di colpa per non avere fatto. .. niente, è finita in lacrime.
Il rigore s’imponeva doppiamente, al tempo, perchè chi consentiva al proprio ragazzo o ragazza di far parte di una corale affidata alla direzione di un prete, s’attendeva come minimo grande lealtà e trasparenza nei rapporti tra coristi.
A un certo punto, ricorda sempre l’anziana corista, don Giacomo Vender è stato aiutato alla tastiera dal maestro Fontana. Per breve tempo, pero, perchè fu sostituito in seguito dall’indimenticabile maestra Emilia Muzio che rimarrà per decenni l’accompagnatrice brava della corale. Una singolarità anche qui, peraltro continuata anche ai giorni nostri, con l’organista Mariella Sala, perchè non era dato alle donne salire in cantoria, sia come esecutrice, sia come cantante. Il che fa ricordare lo “scandalo” dell’appena diciottenne Johann Sebastian Bach, quando, nel 1703, organista e Kappelmeister ad Arnstadt, a dispetto di rimbrotti, opposizioni, scandalizzati rimproveri, ostilità sempre più cruda, portava in cantoria un’avvenente cantante, sua lontana cugina, alla quale, probabilmente, faceva interpretare anche arie profane. Era Maria Barbara Bach che Johann Sebastian accompagnava quando saliva da solo in cantoria. Il grande compositore si era innamorato di lei e in seguito la sposerà, con grande dispetto dei maggiorenti di Arnstadt che volevano offrirgli Anna Margareta, figlia dell’altro grande compositore, Dietrich Buxtehude, ma di dieci anni più vecchia del giovanissimo Bach. Per dire, insomma, che la proibizione d’accogliere l’elemento femminile in cantoria e sul coro delle chiese aveva radici molto lontane.
Rigore e regole. Significativo, in proposito, una sorta di regolamento diretto ai cantori ”pueri et viri chorales”, siano essi ragazzi o uomini corali, sotto forma di norme e consigli. Come si vede non si fa cenno alle “mulieres”, alle donne, ma solamente ai “pueri” e ai “viri”. Il regolamento, prima scritto a mano in bella grafia e poi stampato, era stato distribuito nella settimana santa del 1946. Eccolo:
I. Sii pronto e assiduo alle prove. Abbi zelo e grande spirito di fede. Prima del canto ravviva la tua credenza.
2. Offri a Dio il tenue sacrificio della tua voce. Rivestiti dei sentimenti emanati da tutta la sublime liturgia della Chiesa.
3. In chiesa tu sei al servizio dei misteri divini. Fai I ’ufficio degli Angeli. Non dimenticarlo mai. Attento al senso delle parole. Se cantando, saprai pregare con maggior fervore, susciterai maggior devozione negli altri. Impegna dunque le doti della tua voce perchè l’anima dei fedeli si elevi a fervida preghiera. Nessun errore, nessuna distrazione, nessuna scompostezza pregiudichi questo unico scopo del tuo canto.
4. Attento all’intonazione. L’attacco deve essere pronto e distinto.
5. Bada a non tenerti nascosto. Abbi, più che ti è possibile, lo sguardo fisso sul Maestro.
6. Apri bene la bocca e respira bene. Non devi gridare nè sforzare troppo la voce, ma il tuo canto fluisca dalle labbra pastoso, naturale, vivo. Tra un canto e l’altro non dissiparti.
7. Poni la tua anima nel canto.
8. Il canto corale risulta dalla fusione di tutte le voci. Devi perciò sottomettere la tua volontà a quella del Maestro e devi, cantando, ascoltarti e ascoltare i tuoi compagni per non distinguerti da nessuno.
9. Sii primo solo nell’attenzione e nella devozione.
10. Rifletti: anche da te dipende la riuscita dell’esecuzione.
11. Il ritmo è il nerbo della musica. Cura la pronuncia esatta delle parole, la dolcezza delle finali, il colorito della frase. Non dimenticare cosi presto le osservazioni e i suggerimenti del Maestro. Fai tesoro delle critiche. Non disdegnarle. Quand’anche non fossero veritiere e giudiziose non risentirne mai.
12. Abbi cura di quanto, nella scuola — libri e parti — hai tra le mani. Sii ordinato nel rendere ogni cosa alla fine delle prove o delle esecuzioni.
I3. Ama la “Schola” e i tuoi compagni. Non ti divida mai da essi nè invidia nè gelosia. Con umiltà e carità cerca ardentemente, con la voce e con la vita, la gloria di Dio. Iddio ti premierà.
Il tuo prevosto, Don L. Daffini.
Sul frontespizio del singolare pieghevole l’intestazione: “Scuola corale faustiniana — Voluta dal nobile spirito di Mons. Luigi Gheda nell’anno 1932” Poi il nome della corista cui era diretto il regolamento “Deltratti Carla”.
Più in basso, a caratteri maiuscoli “Norme e Consigli”, in parallelo con “Cantate Domino Canticum Novum”. Non manca, in carattere minuto, l’individuazione della Casa stampatrice: “Tip. Morcelliana — Brescia”.
Riletti oggi, questi consigli e norme, danno il senso di un’attenzione estrema, quasi pignoleria morale e comportamentale. Eppure erano accolti con apertura, quasi con gratitudine perchè frutto di profondo sentire. Indipendentemente dal canto, molte “norme” valevano e valgono per la vita d’ogni giorno perchè non provare invidia, non farsi turbare dalle critiche, non prevalere sugli altri, dare colorito al canto, smorzare i toni, agire per maggior gloria non propria, ma in vista d’un bene superiore, essere primi nell’attenzione e nella devozione sono suggerimenti che travalicano la semplice appartenenza ad una corale, per farsi traccia di comportamento.
Un richiamo anche dalla regola numero 12 che stimola ad avere cura di libri e partiture, a restituirle e ad essere ordinati. Non è forse norma di vita? Essere ordinati, avere cura di quanto viene affidato è significativo di atteggiamento leale. Certo, le partiture oggi sono quasi una sine cura, basta una fotocopiatrice ed eccole perfette nelle mani dei cantori. Un tempo, pero, costavano molta fatica perchè dovevano essere copiate a mano, per quanto, come ricorda una corista, don Vender pretendeva che le parti fossero imparate a memoria e l’attenzione dei coristi rivolta tutta al direttore del complesso vocale.
Nel quinquennio che ha coperto la seconda guerra mondiale, la Corale faustiniana non ha cessato d’essere attiva, anche tra le defezioni per i motivi più svariati. In quel tempo la guidava il maestro Giulio Tonelli, ottimo musicista, organista, compositore, ma soprattutto grande didatta che nella sua lunga esistenza ha sfornato centinaia di organisti sparsi in tutta la provincia. Ebbene, Tonelli per anni è stato l’arrangiatore, si direbbe oggi, più aderentemente l’armonizzatore di tanti brani cantati dalla Corale, non solo: scriveva manualmente le parti destinate a ogni singolo cantore. Don Foccoli, che fu direttore del coro dal 1947 al 1957, ricorreva al maestro Tonelli con regolarità e una corista ricorda quando da San Faustino, con la musica “da imparare”, andava in via Calatafimi, dietro la Basilica della Madonna delle Grazie, dove abitava Tonelli, perchè l’armonizzasse e ricavasse le singole partiture. Ecco perchè la regola numero 12 era ed è importante.
Perdere parti di musica rappresentava un oltraggio alla grande fatica di scriverle, una per una. con pazienza infinita senza farsi prendere dalla noia della ripetizione e con l’attenzione sempre elevata per non sbagliare nota che in qualsiasi momento poteva “spostarsi" da uno spazio vuoto al rigo, questione di mezzi millimetri.
Il cammino della Corale, si è accennato, allunga il primo passo nel 1932. Il prevosto d'allora, monsignor Luigi Gheda, musicalmente sensibile, affidava l’incarico al nuovo curato, don Giacomo Vender che riuniva un primo gruppo di cantori ai quali riusciva a trasmettere entusiasmo e tatto musicale. La Basilica dei Santi Patroni è cosi testimone per anni del continuo miglioramento della corale, del repertorio, sempre più raffinato, di grande effetto quando le musiche erano studiate per le occasioni più solenni. La guerra allontanava da San Faustino don Vender che segui come cappellano “la meglio gioventù” sradicata dalle famiglie e pretesa drammaticamente dalla guerra. Cosi don Giacomo fu cappellano militare in Croazia, in Grecia e in Francia.
Gli succedette il maestro Giulio Tonelli, musicista d’eccelsa preparazione che mantenne viva la Corale, nonostante gli anni dell’angoscia. Anzi, proprio il canto, nelle funzioni e nel teatro, portava momenti di sollievo e di speranza.
Don Giacomo toma a guerra finita. Moltiplica le forze e la Corale raggiunge un numero oggi nemmeno lontanamente pensabile di cantori: novanta. C’è fervore, intensità. La guerra è finita, l’Italia e Brescia sono da ricostruire, rifiorisce la voglia di vivere, di fare per sè e per gli altri. Probabilmente l'adesione di tanti elementi al gruppo canoro di San Faustino e frutto anche del tempo che spinge a rimboccarsi le maniche in tutti i campi.
Cosi già il 20 giugno 1947 il coro commemora il XIV centenario della morte di San Benedetto nella chiesa di San Giuseppe <<nella nuova bufera barbarica che minaccia di sommergere il mondo — come recita la breve prefazione al programma — rifulga per segnare anche, l’ideale benedettino, prega e lavora, dopo quattordici secoli la via della salvezza. Risorga come faro per le anime ansiose su quel monte a cui Cassino è sulla costa, il monastero stroncato. Ritorni il monastero faustiniano che per secoli custodi la civiltà di San Benedetto a essere il centro della vita rinnovata della parrocchia». Da queste brevi frasi si spreme il sapore amaro della guerra: il monastero di Cassino, che porta il nome del Santo, e distrutto dalla tristemente famosa battaglia, quello di San Faustino (oggi divenuto sede dell’Università degli Studi di Brescia) che pure ospitò i Benedettini, è di nuovo il centro di vita della parrocchia.
La direzione della Corale e ancora sulle spalle di don Vender, ultimo anno con il coro da lui fondato. Il programma del concerto che colloca accanto ai coristi l’orchestra risponde a più esigenze: quella religiosa, con brani sacri da “Super fulmina Babylonis” alle “Missae” di Palestrina, dal “Corale” dell’opera “Ifigenia in Tauride“ di Gluck alla “Vergine Madre” di Verdi, dal finale del terzo atto della “Butterfly” di Puccini a “Inneggiamo al risorto nostro Signor” della Cavalleria Rusticana di Mascagni, fino al Coro della processione da “I Lombardi alla prima Crociata” di Verdi, per citare i brani più significativi. Un repertorio che richiede personalità non marginale, dato che l’ultimo coro verdiano citato è a sei voci dispari.
Il 19 maggio 1948 la Corale, passata alla direzione di don Mario Foccoli, e di nuovo in scena, questa volta nel salone delle Acli dove si celebra la festa dei lavoratori, auspice San Giuseppe, e per i quali i cantori di San Faustino tengono un breve concerto. Nel mese successivo, il 26 giugno, nel salone Pietro da Cemmo, i novanta elementi della Corale e orchestra danno un grande concerto “a beneficio delle colonie estive della parrocchia” in cui spiccano brani d’assoluto effetto come “O Signore” a cinque voci dispari da “I Lombardi alla prima crociata” di Verdi, o la “Barcarola” a sei voci, dalla Egiziaca di Ricci Signorini, tanto per citare.
Si giunge al 1952 e certo i vent’anni di vita del corpo canoro non possono essere lasciati cadere. La Corale si e assottigliata, si fa per dire, d’una ventina d’e1ementi. I magnifici settanta commemorano i quattro lustri di vita con un grande concerto il 22 maggio 1952, nel teatro della parrocchia per quei “ 20 anni al servizio di Dio e degli uomini con il canto e con il cuore”. Un concerto diviso in tre parti. La prima aperta con il brano dal titolo perfetto “La marcia dei cantori”, per quattro voci miste, di Mitterer, seguito da canti della montagna, a riprova della duttilità dei faustiniani. La seconda parte riservata ai cori caratteristici, tra i quali spiccava “Gluck gluck”, scherzo a quattro voci dispari di Thermignon. La terza, chiamata momento mistico, con brani d’intonazione sacra prima del gran finale con il celebre “Alleluia” di Haendel. Non mancherà nemmeno un corposo concerto a chiusura dell’anno eucaristico vicariale nell’agosto 1952, al cinema “Aurora”.
Vent’anni di musica non potevano passare sotto silenzio nemmeno da parte della stampa. “L’ Italia”, quotidiano nazionale di ispirazione cattolica, con redazione anche a Brescia, il 23 maggio di quell’anno, scriveva: <<Tra le tante istituzioni che a Brescia si fanno onore e che onorano la città, una ve n’e attorno alla quale si fa rumore in proporzione esattamente inversa a quella che i suoi componenti fanno. Rumore per modo di dire. In realtà la “Corale Faustiniana” fa del bel canto ed è custode a Brescia, con pochissime altre consorelle, della più bella polifonia. A vent’anni dalla sua nascita, che ieri e stata ricordata con una composta celebrazione, la Corale Faustiniana si distingue dalle Cappelle, perchè al canto sacro, alla sacra polifonia tanto cara al Tebaldini, unisce anche una cultura musicale profana che si estende dai classici, dai madrigali, alla operistica, dal romanticismo all’apparente rudezza dei cori alpini e delle canzoni campagnole. T anta varietà di repertorio e, ovviamente, di capacita critica di interpretazione e di assimilazione, le viene dall’esperienza assai lunga che si e tramandata di cantore in cantore, quasi sempre sotto la guida costante di quel maestro che la fondo, appunto vent’ anni orsono e con tenacia costante ha saputo dare un carattere, imprimere una fisionomia particolare al complesso. Quando canta la Corale Faustiniana, in realtà, si avverte la sua impronta. Don Vender (il fondatore è appunto lui) ha la mania delle “e” strette, delle finali che si chiudono repentine, gli attacchi secchi come colpi di fucile, precisi e sicuri. Vent’anni fa don Vender, di fresco ordinato prete, infervorato nei suoi studi di musica, appena era stato messo a fare il curato aveva subito approfittato per sfogare la sua passione: insegnare il bel canto, convinto com’era che attraverso la musica lo spirito si raffina, si educa, si eleva a Dio. Gli hanno dato ragione questi vent’anni in cui si sono avvicendati i cantori che oggi ricordano ancora il tempo trascorso nella Corale, gli insegnamenti ricevuti, in tutti il canto ha lasciato l’impronta di un attaccamento convinto alla pieta e alla religione, alla bontà e all’onesta dei costumi. Poi la Corale, sorta come una scoletta parrocchiale qualsiasi, si fece più sicura di sè, vennero tentate le prime esperienze classiche con buon successo. La voce delle sue esecuzioni si estese fuori citta, cominciarono le peregrinazioni che si annoverano a centinaia. Dappertutto la Corale era presente per rendere raccolta e più bella una festa religiosa, un’accademia letteraria, uno spettacolo. Ci furono nella sua storia anche le giornate tristi e le pagine dolorose dell’interruzione durante la guerra, pagine che hanno segnato soltanto una sosta.
Subito dopo la guerra, di nuovo i cantori si ritrovano, si rinnovano, si ricomincia daccapo. Oggi a dirigere la scuola che in don Vender ha sempre il suo fondatore e assiduo sostenitore, e un altro sacerdote dalla profonda cultura musicale: don Mario Foccoli il quale mantiene alta la tradizione ed ha il merito di aver allargato gli orizzonti. Ne ha fatto fede il concerto svoltosi ieri sera nel teatro San Faustino, appunto per celebrate il ventennio. Dai canti della montagna alle pagine ingiallite di Muller, dal canto onomatopeico di Thermignon (“Gluck gluck”), alla “Ninna nanna”, di Brahms, un petalo di rosa delicato, al possente “Presso il fiume stranier”, di Gounod. Ma soprattutto nell’esecuzione di un mottetto, di Luis da Victoria (“Caligaverunt oculi”) e del madrigale “Neve non tocca” di Perosi, i faustiniani hanno dato il senso della loro efficienza interpretativa, del loro affiatamento e della loro fusione. Due brani di Verdi, sempre spigliato ed eccitante, anche se volgare talvolta, hanno chiuso la serata che nelle parole del prevosto, monsignor Daffini, ha avuto una ben indovinata sintesi: “La Corale Faustiniana — ha detto — ha servito per vent’anni Dio e gli uomini con il canto e con il cuore”».
Come si nota, si parla di interruzione dell’attività durante la guerra. In realtà, come s’è visto, il gruppo vocale era affidato in quei tristi anni al maestro Giulio Tonelli. Probabilmente il cronista avrà voluto significare un’attività non continuativa o meno costante. Del resto erano anche gli anni dei bombardamenti su Brescia, degli sfollati e quindi qualche serata, se non settimana, di prove, poteva saltare.
Mario Foccoli rimarrà alla guida della Corale fino al 1960, quando gli subentrerà il maestro Franco Braga, tra l’altro ottimo concertista che con il maestro Pietro Zanoni aveva costituito un duo pianistico di rilievo internazionale. Braga sarà per molti anni anche critico musicale del Giornale di Brescia, a quei tempi unico quotidiano della citta e della provincia.
Gli Anni Sessanta sono i più difficili. La Corale s’assottiglia, molti si disaffezionano al canto sacro, mode e tendenze sempre più laiciste sospingono altrove, la motorizzazione diffusa distoglie e allontana, la televisione entra massicciamente nelle case e nei bar. Il mondo cambia e con esso anche una certa dedizione al sacrificio, la stessa che e richiesta, a volte abbondantemente, per far parte con dignità artistica di una corale.
Il maestro Braga tiene comunque in assetto di volo i coristi rimasti e riesce a ben figurare nel panorama canoro della citta e della provincia, grazie alla generosità dei coristi, del maestro stesso, tanto più ammirevole quanto più il momento era difficile.